Redazionale tratto da: Affari & Finanza
29 ottobre 2012
La famiglia è stata tra i fondatori del consorzio del Grana Padano. Ora produce in Moravia ed è guerra con gli altri produttori. Ecco le sue ragioni: “In Italia la terra è finita, e esportare know how non è delocalizzare”
Asiago
Le sue 15mila mucche pascolano, beate, su dolci colline verdi tappezzate di fiori e irrigate naturalmente dalla pioggia che fa crescere il foraggio. Ogni capo ha a disposizione, in media, 5 ettari, viene allevato con stabulazione libera o con una cuccetta individuale, nelle 70 fattorie che costituiscono un comprensorio. nel complesso producono 380mila litri di latte al giorno, che vanno a costituire la materia prima di un formaggio molto simile al parmigiano. Peccato che tutto questo paradiso non si trovi in Italia ma in Moravia, regione della repubblica Ceca da cui il formaggio prende il nome per essere venduto anche in Italia. A produrlo, però è un’azienda italiana, la più antica nel settore del latte, la Brazzale. A fine 700 i Brazzale commerciavano burro e formaggio tra le malghe dell’Altopiano di Asiago e la pianura vicentina. Un loro antenato, Giovanni, fu il primo, negli anni quaranta, a produrre il grana padano sulle colline vicentine. Oggi sono un gruppo di tutto rispetto che tra formaggi e burro, venduti in mezzo mondo, arriva a fatturare 180 milioni di euro l’anno. Sei marchi (Verena, Alpilatte, Burro delle Alpi, Gran Moravia, Zogi e Silvopastoril), stabilimenti produttivi in Italia, Repubblica Ceca e Brasile, i Brazzale hanno lanciato una pietra nella piccionaia, già agitata, dell’agricoltura italiana delle nicchie, dei Dop e dei chilometri zero: quello di produrre con know how italiano, ma fuori dall’Italia, un formaggio di qualità, a prezzi ridotti, filiera ultra certificata. Ne è nato un putiferio, anche se le quantità del Gran Moravia non sono che una frazione, 60 milioni, della loro produzione: che succede se anche l’agricoltura si mette a delocalizzare? “Ma quale delocalizzazione – dice Roberto Brazzale presidente del capogruppo – se un’azienda agricola vuole svilupparsi non ha che da andare fuori dall’Italia, qui non si può crescere”.
Non vorrà sostenere che in Italia l’agricoltura non può crescere?
“Dico che non c’è più terra, siamo al limite per l’acqua, con conseguenze pericolose anche per la salute. Noi facciamo il mais dove il mais non è vocato: la terra costa tanto, le rese devono essere altissime se no, non c’è compensazione di costo. Siccome produciamo sotto il sole cocente, abbiamo bisogno di tirare giù acqua dalle Alpi.
E lo stress idrico cui sono sottoposti i foraggi produce problemi enormi per la salute, come quello delle aflatossine che sono cancerogene. Ecco io vado là dove è possibile produrre in altre condizioni”.
Ma c’é sempre l’agricoltura di qualità, quella legata al territorio…
“Certo che c’è. Ma la qualità dell’industria e dell’agricoltura italiana devono rimanere legate ad un territorio che è ridottissimo? E perché? Vogliamo pensare di produrre solo prodotti di nicchia, a costi elevatissimi, in un mondo dove la domanda di prodotti lattiero caseari cresce al 2% e dove c’é una domanda che certo non si può permettere di pagare quei prezzi”.
Che cosa resta dell’agricoltura se tutti fanno come lei?
“Prima di tutto non abbiamo tolto niente all’Italia dove l’agricoltura, a proposito di italianità, campa solo grazie alla manodopera straniera, spesso tenuta in condizioni di semischiavitù. Il futuro non è una mucca munta in Italia da un indiano, peraltro validissimo. E’ usare la nostra forza, la qualità della nostra gente per fare il burro e il formaggio là dove ci sono le condizioni. Del resto stagionatura, confezionamento e distribuzione restano qui in Italia”.
Già ma il suo Gran Moravia somiglia molto al parmigiano. Così non si distruggono le tipicità?“Sono tutte scuse di un sistema corporativo che si difende perché vuole continuare a vivere su rendita di posizione e che inventa di tutto per non confrontarsi sulle cose”.
Difenderà anche la sua originalità contro le contraffazioni…
“Non è vero. Mi hanno detto di tutto: che non potevo fare le forme rotonde perché si confondeva con il parmigiano anche se c’ è scritto sopra a chiare lettere dappertutto Gran Moravia. Poi mi hanno contestato anche quello, sostenendo che la gente non sa dov’è la Moravia. Allora ho scritto sull’etichetta dove veniva munto il latte. Non è bastato. Alla fine ho stampigliato un’etichetta multimediale: basta metterci sopra un iphone e si collega alla fotografia dei luoghi e a tutte le notizie sulla filiera che lo produce”.
Chi le fa la guerra?
“La Coldiretti, o meglio la cultura coldirettiana. Poi il consorzio del grana padano e del parmigiano. Dal primo abbiamo dovuto dare le dimissioni. Proprio noi che siamo una delle aziende che lo hanno fondato”.
Forse perché lei li copia quei prodotti.
“No, perché ne produco di buoni a costi più bassi e violo un sacro principio: che è quello che i buoni prodotti si possono fare solo in Italia. Penso che ragionare così sia una politica suicida, perché un patrimonio di conoscenze e di imprenditorialità si deve fermare di fatto, per scarsità di risorse, di fronte ad una sorta di politica protezionistica e di nicchia”.
Pensa che altri la seguiranno?
“Lo spero perché abbiamo in Italia una quantità di professionalità inespresse perché non c’è spazio e non c’è terreno. Invece delle ideologie sono convinto che ci si debba sfidare sulle cose concrete: il rapporto qualità prezzo, la trasparenza verso il consumatore, la tracciabilità della filiera, la sua genuinità”.
Alessandra Carini